Discutere intorno al peccato è sempre un’operazione ardua, imbevuti come siamo di stereotipi e di idee moralistiche che avvolgono la nostra esistenza e ci fanno allontanare dalla vera essenza del problema. Penso che un approccio che sbarrazzi il campo, fin là dove è possibile, dalle fantasie che abbiamo ereditato in dote sul peccato sia una possibilità che la nostra Psiche richiede come nutrimento per la sua tavola bandita di incoerenza, contraddizioni, ambivalenze, immagini e simboli. In tale senso, sulla scia del pensiero di C.G.Jung, riflettere simbolicamente sulle trame della Psiche e sulle relazioni tra l’inconscio personale, quello collettivo nel confronto con la coscienza, il primo passo da compiere per guardare gli eventi che si presentano.
Lo sguardo sul peccato pertanto sarà un vedere oltre l’esistenza, senza negarne la portata storica e sociale, con la consapevolezza che tale tema richiama la polarità del bene e del male nella sua totalità, ovvero il rapporto col Sé, partendo dalla conoscenza di se stessi: “Perciò, chi desidera avere una risposta al problema del male, così come si pone oggi, ha bisogno per prima cosa, di conoscere se stesso, e cioè della maggiore conoscenza possibile della sua totalità. Deve conoscere senza reticenza quanto bene può fare, e di quale infamia è capace, guardandosi dal considerare reale il primo e illusoria la seconda. Entrambi sono veri in partenza ed egli non sfuggirà interamente né all’uno né all’altra, se vuole vivere come naturalmente dovrebbe senza mentire a se stesso e senza illudersi” (1)
Partire dalla propria esistenza, dalle trame relazionali della vita e del mondo della Psiche, colloca il peccato ad un crocevia enigmatico con cui l’umano si trova sempre a fare i conti; sembra quasi che il peccato si pone come un sentiero tortuoso, anzi una strettoia, attraverso cui passare per rimanere imprigionati oppure per cogliere un senso più profondo ed ampio. In ogni caso al di là di nuovi e vecchi peccati, forse il vero peccato è rappresentato da quello che moralisticamente viene costruito intorno ad esso, le fantasie e le verità storiche che hanno snaturato la sua specificità, dando un’idea artefatta del divino, al di là delle singole confessioni religiose: “Come ci hanno fatto pagare cara la nostra somiglianza con Dio, come ci hanno punito per essa, come ce l’hanno fatta perdere! Creati a immagine di Dio – caduti. Chi può mai credere che un buon Dio-Padre ci abbia trattato cosi!” (2)
Svincolare il peccato dalla valenza religiosa non significa tradire la parte religiosa della Psiche, importante in ogni processo di cura e di consapevolezza psichica, ma riflettere psicologicamente sulle metafore e le storie mitiche che ruotano intorno al peccato. Avere un’atteggiamento religioso permette di afferrare la complessità del problema con la consapevolezza che ci troviamo sempre di fronte al numinoso così importante in ogni processo di cura e di trasformazione della personalità, quasi che la scintilla divina presente nell’uomo e nel creato trovasse sempre la possibilità di affermare la propria esistenza, come evento archetipico. Assumere una visione non solo personale ma anche archetipica di fronte al tema del bene e del male, vera scissione con cui confrontarsi ogni volta che si apre il sipario sul peccato, permette di dare una valenza prospettica agli eventi, partendo dalla responsabilità etica individuale dell’azione senza poi proiettare sul divino ombre e storture che appartengo specificatamente all’essere umano. Questo lo ritengo un punto fondamentale lungo l’analisi di tale fenomeno in quanto lo spartiacque tra l’umano ed il numinoso a volte è così sottile ed incerto che la coscienza si perde nei meandri confusivi, spesso impotente ed incapace a porre le dovute differenziazioni. In questo il lavoro di Jung su “Risposta a Giobbe”, resta uno dei capisaldi psicologici, in cui la sofferenza umana assurge a interrogativo che rimane aperto al mondo dove non esiste risposta certa ed assoluta. Allora l’esperienza di Giobbe, partendo dal dato empirico della sofferenza fisica e spirituale, umana, storica, nella sua tragicità, rappresenta solo uno dei poli dell’asse Io-Se; l’altro polo è dato dal numinoso che si impone all’umano con tutte le sue contraddizioni, ambivalenze e paradossi che forse risulteranno tali dal punto di vista della coscienza dell’Io, ma potrebbero essere archetipicamente connessi e specifici del Se, così come le spine appartengono alla rosa ed una rosa senza spine perde, nella sua esistenza, la propria essenza: “ Il nocciolo della storia è la sofferenza di Giobbe e la risposta che egli riceve da Dio. Ma questo non è assolutamente una risposta. Dio non fornisce alcuna spiegazione per le terribili sofferenze di Giobbe. Il libro di Giobbe è naturale proprio perché tenta di guardare in faccia la catastrofe, la miseria, la malattia e la sofferenza, senza ripiegare su qualche spiegazione di tipo moralistico o di altro genere. La storia racconta soltanto di come Dio tormenti gli uomini senza fornire giustificazione alcuna.” (3)
Le immagini della storia di Giobbe albergano nei cuori degli esseri umani, ne costituiscono una piattaforma che spesso accomuna e che fa sentire la tragicità dell’essere umano costretto a vivere il limite della sua esistenza con la consapevolezza dell’anelito della sua essenza ad andare oltre i confini in cui è stato gettato, ma non caduto. Tali immagini permettono anche di intravedere l’incapacità del collettivo (gli amici e le persone accanto a Giobbe) che lo ritenevano un peccatore e per tale motivo castigato e punito. Il collettivo, impone una propria morale agli eventi che accadono e spesso risulta distonico rispetto alla sofferenza del singolo, quasi che fosse più facile applicare in maniera automatica il modello del pensare causa/ effetto degli eventi psichici, saltando a piè passo l’autenticità della sofferenza umana e rinviando il tutto alla coppia peccato/punizione. Tutto ciò imprigiona il peccato nella gabbia dorata della punizione, nella certezza umana che invece vacilla nel confronto col numinoso; la punizione diventa la soluzione al problema del peccato e: “siamo così ossessionati dal trovare soluzioni che ci dimentichiamo del problema.”(4) Il vero problema è che siamo prigionieri di un pensiero monoteista che ha perso il contatto col divino nella molteplicità delle sue manifestazioni e che dietro la maschera di una pseudo libertà, invece si è così incatenati alle ombre di un materialismo e del consumismo del buttare per cui: “L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via tratta anche se stessa come una umanità da buttar via”.(5) La storia di Giobbe riporta indubbiamente al tema della polarità, di una morale collettiva che fa del giudizio un’azione punitiva distaccata dall’ascolto della comprensione e a volte della compassione, arenata in un adattamento in cui la preziosità dell’autenticità della singolarità viene relegata nella sfera dell’individualismo, alimentando una sorta di confusione di torre di Babele, per cui: “Il linguaggio non diventa più la dimora dell’essere” (6), ma valore privo della sua potenza archetipica e gli dei metafore vuote, addormentati nella morsa stretta del sintomo che attanaglia il respiro dell’Anima individuale e dell’Anima mundi.
La dimensione del numinoso che compare e si impone afferra l’Io di Giobbe e lo tormenta, lo affligge, così come accade ad alcuni pazienti durante il lavoro analitico nel confronto serrato e faticoso col tema del peccato e del male; nella cura e nella terapia del disagio psichico, le immagini di Giobbe spesso costellano la relazione analitica e lo sbigottimento, l’impotenza nell’avere le mani legate diventa spesso una costante fase in cui si possa attraverso il processo di individuazione del paziente.
In una visione junghiana la dimensione archetipica è particolarmente affascinante e indubbiamente i paradossi del peccato mettono a dura prova la coppia terapeuta-paziente, anche se ne allargano il senso ed il significato, evidenziando che il processo di individuazione non consiste solo nell’ampliamento del livello di consapevolezza raggiunta di se stessi, ma anche con l’accettazione della dimensione divina presente in noi. In questo senso guardare con gli occhi immaginali al racconto di Giobbe consente di vedere tale storia anche dal punto di vista dell’Anima e del suo bisogno, quasi della sua necessità archetipica di ricongiungere la frattura dell’asse Io/Se, dell’umano e del divino, assumendo un atteggiamento religioso di fronte alla potenza del numinoso così importante sul piano esistenziale e della cura :“L’interesse principale del mio lavoro più che al trattamento della nevrosi è rivolto piuttosto all’approccio del numinoso. Il fatto che con l’approccio al numinoso, ci si libera dalla maledizione della patologia. Perfino la malattia stessa assume un carattere numinoso”. (7)
Ma tutto ciò apre lo scenario su una sorta di giardino dove ci sono piante sconosciute, esotiche, di cui si ignora la provenienza e di fronte alle quali mancano degli strumenti di conoscenza. Il numinoso attiva istintivamente il confronto col mistero, con ciò che appartiene ad un’altra dimensione che trascende la contingenza e che spesso alberga o si mostra attraverso spazi, tempi e storie così paradossali :
”Di Eraclito si riporta un detto che egli avrebbe proferito a degli stranieri che volevano incontrarlo. Avvicinandosi, lo videro mentre si riscaldava ad un forno. S’arrestarono sorpresi, soprattutto perché, vedendoli esitanti, egli gli incoraggiò, invitandoli ad entrare, con queste parole: Anche qui sono presenti gli dei.
L’aneddoto parla da sè, ma vogliamo tuttavia mettere in rilievo una cosa. Il gruppo di visitatori stranieri, nella loro invadenza curiosa nei confronti del pensatore, è in un primo momento deluso e sconcertato nel vedere la sua dimora. Questa gente crede di dover incontrare il pensatore in condizioni che, a differenza del mondo abituale di vivere alla giornata degli uomini, hanno ovunque i tratti dell’eccezione, dell’insolito e quindi dell’eccitante.(…) Invece i curiosi trovano Eraclito presso un forno: questo è un luogo del tutto ordinario e non appariscente. Certo, qui si cuoce il pane. Ma Eraclito, vicino al forno, non è occupato a cuocere il pane, è li solo per riscaldarsi.(…)Di fronte a questo spettacolo deludente, i curiosi perdono subito la voglia di avvicinarsi di più. Che cosa ci fanno li ? Questa situazione quotidiana è priva di fascino, cioè che uno abbia freddo e stia vicino al fuoco, ognuno la può trovare in qualsiasi momento a casa propria. Eraclito legge nei loro volti la curiosità delusa, si rende conto che per quella gente già il non verificarsi della sensazione attesa è sufficiente a far loro riprendere la via del ritorno, nonostante siano appena arrivati. Perciò egli fa loro coraggio e li invita espressamente ad entrare con queste parole: gli dei sono presenti anche qui. Queste parole pongono il soggiorno del pensatore in una altra luce: il racconto non dice se i visitatori abbiano capito subito questa parole, o se le abbiano capite affatto, e se di conseguenza abbiano visto tutto diversamente in questa luce.(…) Ma persino qui, nell’ambito di ciò che è solito, gli dei sono presenti”.(8)
uesta situazione quotidiana e priva di fascino, cioè uno che abbia
Tale racconto, nel suo paradosso, semplice ed enigmatico, privo della luce della sofferenza e quindi non comparabile con l’intensità emotiva e tragica del libro di Giobbe, può rappresentare un’altra possibilità di accostarsi al divino e alla sua presenza nel mondo umano, scompigliando la struttura del pensiero razionale che si muove spesso attraverso lo scontato e la banale aspettativa del fantasticare sulla presenza del numinoso.
In ciò è possibile intravedere che il divino abita e dimora nella semplicità, nel quotidiano e nel creato e si impone all’umano attraverso altre personificazioni. Il semplice gesto del filosofo, anzi del ricercatore di una nuova visione del mondo, parte dalla sua esistenza e della sua presenza. Forse anche in questo l’atteggiamento immediato dell’umano è di non capire, ritirarsi, allontanarsi, ritornare sui propri passi, poiché quello a cui si assiste non è stato pensato, non appartiene al mondo del prevedere o del canone del collettivo, ma si impone come Altro: la diversità, lo straniero, l’estraneo.
Era l’immagine (quella di Eraclito che si riscaldava le mani dal freddo) che irrompe, con la semplicità della sua intensità archetipica e della sua straordinarietà (ciò che è fuori dall’ordinario) che mette in scacco il pensiero strutturato e conforme al suo modello e primo tentativo di reazione dell’umano è l’abdicare. Un paradosso straordinario. Il peccato del filosofo è quello di muoversi nella propria naturalezza, accanto al fuoco, riscaldandosi ed accogliendo lo smarrimento dei visitatori che non provando particolari sensazioni riprendono immediatamente la faticosa strada del ritorno, senza riposarsi e sostare di fronte alla meraviglia dello scacco della coscienza. E’ qui nel movimento umano dell’andare via, del ritornare indietro, nella delusione dell’aspettativa immaginata e illusione, qui in questo scarto di vuoti tra il pensare e l’immaginare che Eraclito parla, usa il linguaggio, prospetta, indica e si fa strumento del divino, per indicare e prospettare, un altro modo di soggiornare del pensiero; accettare l’immagine che confonde, delude, ma ri-crea. Lì nella sofferenza di Giobbe, di fronte al mistero della tragicità del dolore corporeo, (la malattia) e mentale (trovarsi di fronte al non senso), non ci sono parole, spiegazioni e significati che possono alleviare i dubbi dell’essere. Eppure però Dio si manifestò a Giobbe, non diede spiegazioni, non fece capire, non alleviò con le parole ma si fece vedere: si mostra nella sua istintiva identità all’uomo e quest’uomo né fu privilegiato. La parola sacra, aspetto intrinseco e simbolico del divino rimane enigmaticamente aderente, non si dispiega, né apre la conoscenza dell’intelletto, ma forse, potremmo immaginare, apre il pensiero del cuore attraverso gli occhi, l’attività immaginativa.
Vedere, essere visto, nel confronto tra l’Io e il Se, attraverso il mondo delle immagini. Forse il mostrarsi è un dono che Dio fece a Giobbe o un comportamento rispettoso del divino verso la sofferenza umana, oppure semplicemente che di fronte al numinoso occorre avere l’umiltà di aspettare che il tempo del dispiegamento maturi, dopo un serrato confronto tra il bene ed il male: “Confrontandosi coraggiosamente con quel che è incomprensibile vi è nella sofferenza, Giobbe venne pur sempre ricompensato: Dio gli rivolse la parola, non gli fornì spiegazioni alcuna, ma gli si manifestò. Quanti di noi possono affermare che Dio in persona ha parlato con loro? Se l’accettazione della tragica incompatibilità della malattia ha come conseguenza il fatto che Dio ci rivolga la parola, allora è valsa la pena di vivere questa terribile esperienza.” (9)
Mi sembra interessante riflettere sul rapporto tra la parola e l’immagine all’interno della relazione della coscienza con l’archetipo della totalità presente nei due racconti. Forse nell’area del numinoso, della presenza tremendum o semplicemente straordinaria, potremmo cogliere l’intrinseca connessione tra parole ed immagine, quasi che l’una non potesse fare a mano della presenza dell’altra, ricostituendo il binomio tra parola sacra, che non spiega, ma rinvia, allude, rimanda a ciò che no può essere detto, ma che metaforicamente può essere intuito partendo dalla funzione del sentire e del provare. Questa parola sacra è impregnata della sua valenza oscura, che non può portare tutto alla luce ma conserva quella enigmaticità tipica del confronto con l’aspetto archetipico: “Gli archetipi che sono presistenti alla coscienza e la condizionano, appaiono nella parte che essi in realtà rappresentano cioè di forme strutturali aprioristioche del fondamento istintivo della coscienza. (..)Essendo un attributo dell’istinto partecipano della sua natura dinamica, e di conseguenza posseggo un’energia specifica che determina e obbliga a modi di comportamento o a impulsi definiti, posseggono cioè, in certe circostanze, una forza ossessiva (numinosità!). Il concepirli come daimonia è pertanto perfettamente d’accordo con la loro natura”. (10) Dall’altro lato, l’immagine si pone come la scena che accoglie la valenza dinamica ed emotiva dell’archetipo, possibilità per il pensiero di farlo soggiornare in un nuovo giardino in cui può confrontarsi contemporaneamente con gli opposti. L’immagine si colora delle emozioni umane e divine e contiene al suo interno la possibilità di accompagnare la parola sacra (il nome di Dio), di contenerla e di donarla al visitatore umano nella sua polarità di Giobbe o di Eraclito. L’immaginazione apre lo scenario su una diversa modalità del pensare e di una nuova etica che accoglie il numinoso, si confronta col tema religioso di Dio: “ Il soggiorno (solito) è per l’uomo l’abitato aperto per il presentarsi del Dio (dell’in-solito).” (11)
Allora la nuova etica deve permettere all’uomo di non rimanere unicamente aderente alla sua esistenza, base e piattaforma sicura della materia, ma deve poter guardare all’interno di essa, all’essenza dell’essere, ovvero all’insolito come polo per ricongiungere la frattura lungo l’asse Io/Se. In questa cornice il peccato, con i suoi paradossi, viene accolto in un’altra luce e senza negare il tema dell’omicida e del suicida presente in ognuno di noi, può essere arricchito e nutrito da nuove fantasie e stili di immaginazioni che gli restituiscono non la condanna, da parte un tribunale che deve essere efficace ed efficiente nel sociale, ma nuovi volti da cui poterlo guardare per tentare di comprendere l’intera natura paradossale della Psiche e della molteplicità delle strade che intraprende lungo il viaggio del suo dispiegamento. Il tal senso allora il pensare al peccato diventa occasione per una nuova etica in cui il pensare è veramente un continuamente andare oltre, superare sempre oltre e al di là. Questo forse è uno degli insegnamenti che potremmo dare eticamente trarre da queste storie raccontate con la consapevolezza che in fondo il rapporto col divino resta una costante certezza nella ricerca dell’uomo di scienza e dell’uomo di fede. Se è vero che in questo contesto storico i dati immodificabili della natura non sono più eterni, ma vengono costantemente oltrepassati dalla potenza della tecnica e della perfezione della macchina, l’uomo moderno deve guardare alla sua singola specificità, dal momento che la sua vita è un approssimazione e non una perfezione. Questo senso dell’approssimazione comporta una dimensione tragica della propria esistenza che amplifica il conflitto interno tra gli opposti e permette di poter parlare di una etica del viandante: “Il viandante non è un viaggiatore che parte da un posto e sa già dove arrivare. Il viandante è uno che cammina senza avere meta e nel suo camminare decide di volta quello che c’è da fare (…). La phronesi è quella sorte di saggezza di fronte a scelte che non si possono dedurre da principi immutabili, come sempre accade dice Platone, sia nella vita politica che nella vita individuale. Si deve allora lavorare nella forma del minor male, del più vantaggioso o minor male si trova anche la condizione tipica dell’uomo”.(12)
Se l’etica del viandante può spingere il pensiero ad andare oltre, permette anche un aggiustamento progressivo del proprio tiro con la consapevolezza del limite e della storicità della Psiche, è altresì vero che a mio avviso ciò vada integrato e completato con un etica della creatività.
Il tema della creatività, così caro al pensiero junghiano, risulta una delle possibilità esistenziali a disposizione dell’uomo per riaffermare la sua unicità, ma anche il suo intimo rapporto con il divino dentro e fuori di lui, nel mondo. In tale senso l’etica della creatività, trova una sintesi tra il pensiero e l’emozione, ridà linfa vitale al gesto del corpo e alle idee della mente, collega l’immaginazione alla ristrutturazione della gestalt della realtà e permette di fare restare una traccia nella storia, dando un senso attraverso l’unione degli opposti tra materia e spirito, come può avvenire con l’arte e la letteratura: “Il punto è proprio questa capacità di apertura del creativo, in cui la forma diventa lo strumento, la chiave che deve riaprire il cuore impietrito dell’uomo e farlo palpitare di nuovo(..). Questo realizzarsi dell’esistenza dentro la mia vita, si dispiega, consciamente o inconsciamente, come il divino che muove la creazione(…). Ma proprio questo essere tagliati fuori dall’Io dal Sé porta all’inflazione, alle dichiarazioni megalomaniche dell’Io che afferma di progettare se steso e il mondo”.(13)
La creatività con la sua etica rivolta all’apertura della mente ad oltrepassare le acquisizioni consolidate, alla sensibilità del cuore che sviluppa e feconda l’immaginazione come possibilità di re-inventare, rappresenta una possibilità trasformativa di se stessi e della realtà esterna.
Tutto questo contribuisce, partendo dalla storia della propria esistenza e dai limiti del mondo, a strutturare un atteggiamento psichico che spinge verso la possibilità di chinare la testa di fronte alle manifestazioni del numinoso, cogliendo le sue molteplici manifestazioni e sospendendo il giudizio, accettando la natura imperfetta umana che tende continuamente alla completezza della totalità, alla possibilità di instaurare un pensiero del cuore unendo la scienza con la poesia, il certo con l’incerto, l’ovvio col mistero, l’umano col divino. Probabilmente è questa etica della creatività che restituisce un senso ed un significato, anche se questa consapevolezza deve includere la presenza del non – senso che spesso alberga intorno alla nostra esistenza. Di fronte al tema dell’etica della creatività, si possono aprire una molteplicità di possibilità che consentono all’individuo di immettersi in uno scenario in cui relativizza gli eventi che accadono e gli da un valore personale ed archetipico, ristrutturando il suo pensiero e vivendo la dimensione emotiva-spirituale da diversi punti di vista. Se il viandante è in cerca e forse il viaggio rappresenta la sua meta, con vissuti di inquietudine e di incertezza, l’uomo creativo, pur partendo dalla precarietà delle ombre della propria esistenza, può cogliere nell’azione creativa la capacità di vivere l’Assoluto nel momento, sentendosi e facendosi parte di un Tutto e ciò può acquietare e riposare la sua angoscia esistenziale.
L’atto creativo rappresenta per l’uomo, la possibilità, lungo il suo viaggio, di rimescolare le carte, le acquisizioni e le certezze raggiunte con tanta fatica, per comprendere la totalità dell’esistenza come base sicura su cui appoggiarsi, una sorte di fede, di base solida, nelle sue capacità di trasformazione e di essere unito al Tutto. Allora il peccato con i suoi paradossi, senza negare l’aspetto oscuro e dannoso, diventa possibilità che il divino offre all’uomo per riprendere in mano la creatività e rileggere gli eventi che accadono non solo in maniera reale e quotidiana, ma anche spirituale ed artistica: “L’opera d’arte ha un origine misteriosa. Se l’anima dell’artista è viva non ha bisogno di teorie cerebrali. Trova da sola qualcosa da dire, qualcosa che nemmeno in quel momento l’artista conosce. Gli dice quale forma usare e dove trovarla (nella natura esteriore o in quella interiore). Ogni artista che si ispira al cosiddetto sentimento sa che la forma che ha immaginato più improvvisamente apparirgli ripugnante, e un’altra forma giusta, può da sola sostituirsi alla prima, rifiutata (..). Ancora più tardi compresi che la forma esteriore o emana dall’intenzione interiore oppure è natura morta (…). L’immagine è il coronamento del principio della necessità interiore”. (14)
Il tema della necessità interiore, nell’etica creativa, diventa con tutte le sue contraddizioni, il punto di partenza per intraprendere qualsiasi avanzamento della conoscenza; da valore e dignità alla singolarità umana, al di là della molteplicità delle teorie e di opinioni del collettivo, ricorda che a fondamento esiste l’essere con la totalità della sua esistenza autenticamente vissuta e pensata con la consapevolezza della sua tragicità, ma anche con la luce che costella le tenebre. Partire da ciò permette di iniziare da se stessi, dalla capacità di sopportare e reggere il bene ed il male in ognuno di noi, dal pensiero che la Psiche è ricca di paradossi e che non sempre è possibile comprendere il senso della vita che nella sua più intima essenza resta un’esperienza costellata dal numinoso. L’etica della creatività, permette di assumere un’atteggiamento artistico, che non è un fare degli artisti, ma che deve confluire nel compito di adattare la forma al contenuto. Avere la consapevolezza di ciò permette di vedere la propria vita e gli accadimenti, non solo come eventi che dipendono dalla natura là fuori, ma che acquistano senso e significato in una progettualità individuale di cui non sempre si riesce a coglierne la finalità e che in fondo nell’opera d’arte risulta sconosciuto all’artista stesso. In fondo questa consapevolezza, lascia un margine di manovra all’inatteso, all’inaspettato, all’insolito e queste dimensioni aprono sull’umano il sipario della conflittualità tra materia e spirito, e che una tensione simbolica degli opposti diventa il traguardo di ogni atto creativo, sperimentando la fiducia, non la certezza, nella possibilità di trasformazione e non di sublimazione di se stessi e del mondo.
Alla luce di quanto esposto, potemmo evidenziare che questo argomento tocca la complessità della Psiche nella sua molteplicità e mette l’umano di fronte alla conflittualità iniziale del bene e del male, ovvero rispetto alla funzione religiosa così importante nel processo di individuazione. Questo confronto apre l’umano al contatto con la sofferenza che a volte risulta incomprensibile e priva di senso in quanto costella un aspetto terribile del numinoso, ma dall’altro lato pone l’umano stesso in rapporto con l’aspetto della bontà del numinoso, ovvero della meraviglia, che non arreca sofferenza ma apre alla ricerca dell’indicibile e del misterioso coinvolgendo una nuova modalità di pensare. In entrambi le possibilità (la sofferenza di Giobbe e la meraviglia del racconto su Eraclito), l’umano necessita di una nuova etica, quella creativa, a cui guardare gli eventi che accadono senza rimanere intrappolati nell’appiattimento stereotipato del pensiero del collettivo, ma nemmeno restare prigionieri delle emozioni racchiuse nella materia e nella vita umana. La possibilità di partire dall’esperienza reale del quotidiano, senza voli e salti pindarici, il confronto a volte duro e faticoso con gli aspetti della materia, la capacità di comprendere che le emozioni rappresentano la linfa vitale di ogni processo trasformativo da cui non si può sfuggire, tutto deve essere accompagnato da un atteggiamento della coscienza di apertura alla sfera creativa, imponendo al pensiero e all’emozione l’immagine della totalità come meta finale, all’unione dell’Io col Sé, dell’individuo col mondo. Tutto ciò presuppone un’etica che induce l’individuo all’apertura piuttosto che alla chiusura nelle acquisizioni e nelle certezze conquistati; alla sua capacità mercuriale di spaziare tra le diverse polarità alla ricerca di nuovi significati e di nuovi volti del simbolo che in quanto elemento energetico è in continua trasformazione e dinamicità. In tale senso l’atto creativo non deve diventare un imperativo nevrotico, una sorta di legge categorica a cui ricorrere a tutti i costi sostituendo ad un idolo un altro. La creatività deve essere vissuta come una funzione da coltivare, da nutrire con naturalezza al pari di altri aspetti istintivi/naturali, un elemento che appartiene istintivamente al processo esistenziale e che completa l’individuo nel processo di unire gli opposti della materia e dello spirito in una sorte di equilibrio/non equilibrio, circolare e dinamico.
Poter sperimentare l’atto creativo come momento esistenziale in cui è racchiuso il senso dell’Assoluto e dell’eterno, permette all’individuo di poter ricomporre la frattura originaria tra umano e divino, accarezzando l’unità della totalità come l’essenza profonda del vivere umano.
Mi sembra significativo concludere tale scritto, lungo la scia del rapporto col mistero in relazione alle funzioni religiose creative, con le parole di Jung rispetto alla presenza di Eros che in un modo o nell’altro rappresenta in maniera adeguata il tema degli opposti: “Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso e non si può mai parlare di uno senza considerare l’altro. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto. Parlare di aspetti parziali è sempre troppo o troppo poco, perché soltanto il tutto ha significato. L’amore soffre ogni cosa e sopporta ogni cosa. Queste parole dicono tutto ciò che c’è da dire: non c’è nulla da aggiungere. Poiché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime o i mezzi o gli strumenti dell’amore cosmico. Essendo una parte l’uomo non può intendere il tutto. E’ alla sua mercè. Può consentire con esso, o ribellarsi: ma sempre ne è parte e ne è prigioniero. Ne dipende e ne è sostenuto (…). Sarà una confessione di imperfezione, di dipendenza, di sottomissione, ma al tempo stesso una testimonianza della sua libertà di scelta tra la verità e l’errore”.(15)
Note bibliografiche
1) J.Affe ( a cura di), Ricordi, Sogni e Riflessioni, Rizzoli , Milano, 1981
2) E. Neumann, Il Se’, L’individuo, La realtà, Marsilio, Venezia
3) A.Guggenbul-Graig, Il bene del male, Moretti e Vitali, Bergamo, 1998
4) Krishnamurti, La paura, Astrolabio, Roma, 2003
5) G.Andersen, L’uomo è antiquato, Il Saggiatore, Milano,1985
6) M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano, 1995
7) C G. Jung, La vita simbolica, Boringhieri, Torino, 1985
8) M.Heidegger, op. cit.
9) A.Guggenbul-Graig, op. cit.
10) J.Affe( a cura di), op. cit.
11) M.Heidegger, op.cit
12) U. Garimberti, in Giornale storico del Centro Studi Psicologia e letteratura, , Fioriti, Roma, n. 6/2008
13) E. Neumann, op.cit.
14) N. Kandinskij, Kandinskij e io, Abscondita, Mialno, 2006
15) J.Affe ( a cura di), op.cit.